26 ottobre 2024 ore 18:00 – DUECENTO METRI Ciudad de Mexico – Olimpiadi 1968 (prova aperta)
Sabato 26 ottobre 2024 alle ore 18:00 siamo lieti di invitarti alla prova aperta presso l’auditorium della biblioteca di Oriago. in Via Venezia 171, dello spettacolo DUECENTO METRI – Ciudad de México, Olimpiadi 1968. Di e con Moira Mion.
Si tratta dell’adattamento teatrale del libro di Andrea Semplici e riguarda l’indimenticabile olimpiade dei diritti umani.
Ti aspettiamo.
NOTE DI MOIRA MION
L’INDIMENTICABILE OLIMPIADE DEI DIRITTI UMANI
Immaginatevi la scena: 1968, stadio olimpico di Città del Messico,
premiazione della finale dei 200 metri. I tre uomini appaiono piccoli, delle formiche dall’ultimo anello. Davvero la gente capisce cosa sta succedendo?
Tommie Smith e John Carlos alzano il loro pugno nero, piegano la testa e rimangono così per un istante che non ha fine. Il Comitato Olimpico statunitense il giorno dopo scrive: “ The untypical exhibitionism of these athletes also violate the basic standard of sportmanship and good manners”.
Insomma Tommie e John sono stati due maleducati.
Non ci crederete ma quando, nel 2015 l’Huffpost chiede un commento a quanto accadde nel 1968 al Comitato olimpico USA, qualcuno non ha trovato di meglio che spedire al giornale il comunicato scritto allora, un giorno dopo la gara.
In quelle olimpiadi gli Usa vinsero 24 medaglie. Dodici d’oro, per lo più vinte da atleti neri. Mezzo secolo dopo, nei nostri occhi non luccica questo metallo, ma il nero dei pugni dei due afroamericani.
Quelle olimpiadi furono un uragano di proteste per i diritti umani: i quattrocentisti Usa Lee Evans, Ron Freeman e Larry James salirono sul podio indossando un basco nero, anche loro salutarono a pugno chiuso. Bob Beamon, che sfruttò l’aria rarefatta di Città del Messico volando, nel lungo, per otto metri e novanta, andò a prendersi la medaglia con i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, per mostrare i calzettoni neri. Il saltatore Ralph Boston salì sul podio scalzo. Le ragazze della 4×100 (i loro nomi: Margaret Balles, Barbara Ferrel, Mildrette Netter, Wyomia Tyus) dedicarono la loro vittoria a Smith e Carlos. I centometristi Jim Hines e Charlie Green si rifiutarono di stringere la mano a chi li stava premiando.
La protesta non coinvolse solo gli atleti Usa: Vera Caslavska, straordinaria ginnasta cecoslovacca che vinse in Messico quattro medaglie d’oro e due di argento, quando risuonò l’inno della sua rivale, la russa Natalia Kuchinskaya, abbassò la testa.
Praga era stata invasa poche settimane prima dai carri armati russi. Il regime le impedì di gareggiare ancora. Vera non potè uscire dal Paese per anni.CHI ERA PETER NORMAN?Peter Norman era un velocista australiano, un uomo coraggioso: nello spogliatoio, prima di uscire a prendere la sua medaglia d’argento, aveva chiesto ai due neri la coccarda dell’ OPHR, l’Olympic Program for Human Rights, l’associazione fondata da Harry Edwards, ex discobolo e attivista per i dirittti dei neri.Con quella coccarda appuntata sulla tuta, strinse un patto per la vita con i due uomini neri. Per quella coccarda anche lui dovette subire ingiustizie e persecuzioni.
Avrebbe potuto correre ancora Peter, tentare di migliorare il suo tempo. Il suo Paese non glielo lasciò fare. Buttò le sue scarpette in un fosso e usò la sua medaglia come fermaporta, Peter.
Alle Olimpiadi di Sidney, nel 2000, Peter non venne invitato a presenziare alle cerimonie inaugurali dei giochi: “mica potevamo invitare tutti”, si giustificarono i membri del Comitato Olimpico. Un dispetto rancoroso dopo 32 anni.
Nel 2012 il parlamento australiano chiese ufficialmente scusa per la decisione di escludere Peter dalle Olimpiadi di Monaco del 1972. Ne riconobbe il coraggio e il valore sportivo. Il Comitato Olimpico di Melbourne si infuriò. Stizzosi, replicarono: non c’è niente di cui scusarsi.
Peter non seppe mai di tutto ciò. Era morto il 3 ottobre del 2006. Nelle foto del suo funerale si vedono due uomini neri, con capelli e baffi bianchi che sorreggono sulle spalle la sua bara. Tommie Smith e John Carlos avevano attraversato l’oceano per portare l’ultimo saluto a Peter.PERCHE’ RACCONTARE QUESTA STORIA?
Ho scritto “Duecento metri”, adattamento teatrale dell’omonimo testo di Andrea Semplici, nel 2020.
Il 21 gennaio del 2020 si legge in un rapporto dell Oscad (Osservatorio interforze per la sicurezza contro gli atti discriminatori) presentato in seguito al convegno “Le vittime
dell’odio” tenutosi a Roma: nel 2019 si sono registrati 969 reati, uno ogni nove ore, legati a razzismo, identità di genere e disabilità. In valore assoluto c’è stato un calo del 12,75
rispetto al 2018 tuttavia sono aumentati i casi di incitamento alla violenza (dai 220 del 2018 ai 234 del 2019), le aggressioni fisiche ( da 88 a 93) e gli atti di vandalismo (da 5 a 10)
riconducibili a razzismo e xenofobia.
Nel maggio del 2020 il movimento “Black lives matter” , attivo dal 2013, è diventato oggetto dell’attenzione dei media internazionali a seguito delle proteste per la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta il 25 maggio nello stato del Minnesota, per opera di quattro agenti di polizia.
Il 22 settembre del 2020, in seguito alla vicenda di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni con origini capoverdiane ucciso a Colleferro il 6 settembre, l’Internazionale scrive: in Italia il razzismo riguarda molte più persone di quanto si pensi. E’ riduttivo pensare che il razzismo strutturale che c’è nel paese sia una questione che riguarda solo gli autori dell’ennesimo pestaggio o certi partiti politici che usano la xenofobia come metodo di propaganda. Sebbene sia vero che i partiti, i movimenti e le persone che si muovono in quest’area giochino un ruolo cruciale nell’alimentare xenofobia e violenza, il razzismo strutturale non dipende unicamente dagli episodi di violenza a sfondo razziale e da qualche partito che urla affinché i porti restino chiusi.
Il razzismo è approvato e perpetrato anche dai “meno sospettabili”, un razzismo “inconsapevole e bonario” diffuso tra le persone comuni e accettato perfino da chi pensa di non avere stereotipi o pregiudizi. Le discriminazioni e le violenze a cui assistiamo ogni giorno non sono frutto della semplice ignoranza: sono un modo di concepire la società basato sulle disuguaglianze, sull’emarginazione e sulla discriminazione, per proteggere il privilegio di pochi.
Potrei continuare a citare articoli di giornale, riguardanti i più svariati ambiti della vita sociale, fino ai nostri giorni: dagli insulti durante una partita di calcio alla discriminazione a scuola, passando per il recente affossamento del Senato del DDL Zan.La delicatezza con cui Peter Norman è entrato in una protesta tutta nera; la determinazione che l’ha guidato negli anni successivi, a continuare a credere nella scelta fatta; il dolore, immagino, nel dover rinunciare a correre, e l’amarezza per un Paese che tanto ci ha messo a comprendere il vero significato della parola uguaglianza; l’umiltà che l’ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni; tutto ciò della vita di Peter Norman, credo che non debba andare perduto.Scrisse Gianni Mura: non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, nel ‘68. Erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.